Pazienti senza ricordi e che non conoscono le emozioni: l’intervento della TMI

Premessa del trattamento in TMI (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., 2013) riguarda la necessità del terapeuta di comprendere l’esperienza del paziente, non tanto in termini di raccolta della sua storia di vita (che viene invece indagata tramite memorie associate), bensì grazie alla condivisione di ricordi, scene e situazioni descritte nelle loro caratteristiche contestuali (dove, quando, cos’è successo), cognitive (che cosa ha pensato, che cosa si è detto), emotive (che cosa ha provato) e corporeo-somatiche.

Il terapeuta TMI esplicita il razionale di poter conoscere e rivivere la realtà del paziente tramite la raccolta di ricordi, accedendo alla sua memoria autobiografica; promuovere l’attivazione della memoria episodica -ancora più della semantica- aiuta ad arricchire di informazioni il vissuto psicologico in una situazione problematica, ma soprattutto permette di evitare generalizzazioni e astrazioni, mantenendosi ancorati alla realtà (per quanto soggettiva) del paziente stesso; negli episodi si cercano le ridondanze, i copioni e gli automatismi che, in quanto tali, si ripropongono situazione dopo situazione: si individuano gli Schemi Interpersonali disfunzionali, allo scopo di formulare una restituzione congrua ed esperienza-specifica di ciò che accade al paziente durante determinate esperienze.

 

È tuttavia plausibile che alcuni pazienti abbiano difficoltà nell’accedere alla memoria episodica: assenza di ricordi, nessun pensiero o emozione riferiti, scarsa capacità di collocarsi nello spazio e nel tempo, astrazione. Se un clinico TMI si trova dinanzi un paziente povero dal punto di vista narrativo, questa condizione diviene uno dei primi fattori sui quali intervenire, pena l’impossibilità di procedere secondo quanto indicato dal Modello, rischiando di risultare inefficace per il perseguimento degli obiettivi terapeutici.

 

Lo stesso genere di difficoltà si propone con pazienti alessitimici: l’Alessitimia può essere definita come l’incapacità di etichettare, riconoscere e descrivere il proprio stato emotivo, mal-interpretando gli altrui e i propri sentimenti, confondendoli con alterazioni e percezioni fisiologiche (Nemiah & Sifneos, 1970).

Se un paziente manca di queste competenze, vivrà uno stato indefinito e aspecifico di attivazione organica e psicologica, senza possibilità alcuna di discriminare emozioni e associarle a pensieri e credenze. Capire come si sente, che cosa prova, stimolare in lui le relazioni di causa-effetto tra episodi/eventi mentali/emozioni, diventa un altro importante focus del lavoro in terapia.

Nelle situazioni descritte, ovvero in presenza di pazienti alessitimici e con scarse memorie, il clinico TMI deve aggirare il “divieto d’accesso” a ricordi ed emozioni, orientandosi secondo due obiettivi preliminari: (1) l’individuazione, insieme al paziente, di strategie di regolazione e gestione del sintomo riferito; (2) la promozione, tramite compiti di monitoraggio, dell’autoriflessività, intesa come competenza metacognitiva utile ad accrescere la consapevolezza circa il proprio mondo interno e i vissuti psicologici.

La promozione di strategie utili a ridurre nel breve termine lo stato di malessere (lavoro sintomo-centrato) permette di accogliere la richiesta del paziente sofferente a causa della sintomatologia riferita (Ansia, Depressione, Disregolazione Emotiva in generale, ecc.), gettando le basi per una buona alleanza di lavoro basata sull’accoglienza della domanda terapeutica (“Non voglio più sentirmi così”); la psicoeducazione e l’incremento della Mastery divengono essenziali e preliminari obiettivi terapeutici; analogamente, vengono proposti compiti di auto-monitoraggio per allenare il paziente a porre attenzione ai propri stati interni, offrendo nuovi spunti al lavoro terapeutico alla ricerca degli Schemi Interpersonali disadattivi. Con questa proposta, la Terapia Metacognitiva Interpersonale dribbla le principali difficoltà che colgono il clinico in situazioni così compromesse, immaginando un lavoro terapeutico che si strutturi tenendo conto anche del margine di miglioramento del paziente, ovvero inscrivendosi all’interno della sua specifica Zona di Sviluppo Prossimale.

 

L’Illusione del Narcisista. La Malattia nella Grande Vita

Venerdì 7 Aprile 2017 il Dott. Giancarlo Dimaggio ha presentato a Milano il suo libro “L’illusione del Narcisista: la malattia nella grande vita”, evento organizzato da SITCC Lombardia al quale hanno partecipato colleghi e professionisti incuriositi da un testo pensato non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per il grande pubblico.

Come si cura un Narcisista? È con questa domanda che si apre la presentazione dedicata a questo specifico Disturbo di Personalità, descritto con gli occhi del clinico esperto che ne coglie non solo i tratti più disfunzionali e deleteri per sé e per gli altri, bensì lo rappresenta anche alla luce delle sue fragilità, vittima della sua malattia.

Il pubblico interviene e cerca di trovare risposta alla sollecitazione: il paziente Narcisista è estremamente sofferente, pertanto per alcuni accudirlo e proporsi come base sicura forse potrebbe aiutarlo; per altri, il Narcisista è esageratamente aggressivo e rabbioso, forse modulare questa sua emozione potrebbe essere la soluzione al problema; ancora, qualcuno sostiene che manchi di empatia, e quindi sarebbe bene allenarlo a mentalizzare l’altro, a rinforzare la sua capacità di stare in relazione, a sviluppare “umanità”.

La tesi che viene promossa nel libro -che dedica parte alla concettualizzazione del funzionamento del DP Narcisistico e parte alla terapia- esclude, almeno a livello preliminare, le ipotesi. E lo fa partendo proprio dalla conoscenza dei meccanismi e dei cicli disfunzionali relativi a questo Disturbo, inquadrandolo in chiave metacognitiva e interpersonale; il paziente con DP Narcisistico vede difatti frustrati i bisogni e i desideri relativi a 3 specifici Sistemi Motivazionali: il Sistema dell’Attaccamento, del Rango Sociale e il Sistema Esploratorio.

Le esperienze di vita di un Narcisista all’interno di questi Sistemi sono presumibilmente state invalidanti: le risposte ricevute dall’ambiente relazionale (Risposta dell’Altro) hanno disconfermato le sue aspettative di essere accudito, apprezzato e incoraggiato. Il paziente ha dunque strutturato una serie di strategie per sopperire a queste invalidazioni (Risposta del Sé alla Risposta dell’Altro), che sono tendenzialmente disadattive, ma anche l’unica scelta possibile. La rabbia, ad esempio, è una di queste strategie: pensare che lo scopo terapeutico possa essere quello di regolarla è, almeno inizialmente, un errore clinico. Non solo perché quella rabbia si ancora a una parte sana del paziente che rivendica il suo diritto di essere “visto”, ma anche perché quella è l’unica emozione che gli permette di non soccombere.

Passo indietro: soccombere a che cosa? Si diceva che i 3 Sistemi maggiormente compromessi sono Attaccamento, Rango ed Esplorazione; il paziente Narcisista ha probabilmente vissuto sin da bambino esperienze nelle quali i suoi bisogni di cura/protezione non venivano recepiti da un caregiver che risultava indisponibile, inadatto o sofferente a sua volta, quindi non in grado di soddisfare il desiderio attivo. Ben presto, questo bambino impara che richiedere cura all’altro significa indisporlo o farlo soffrire ancora di più, pertanto apprende a cavarsela da solo, a sovraregolare le emozioni e a prendere le distanze dalla propria vulnerabilità, pena la sperimentazione di inadeguatezza, vergogna, colpa. E si pensava quindi di poter intervenire proponendo un lavoro sull’Attaccamento? Almeno in principio, questa soluzione risulta iatrogena: attivato il Sistema, il paziente rivive il terapeuta come aveva vissuto il caregiver inadeguato, ritirandosi, arrabbiandosi, droppando la terapia.

Che dire dell’attivazione del Sistema di Rango Sociale? Il bisogno di apprezzamento è uno dei temi centrali del funzionamento narcisistico. È possibile che il giovane Narcisista si sia dovuto confrontare con figure significative che programmavano per lui i più ambiziosi dei progetti, il raggiungimento degli obiettivi migliori, dell’eccellenza, degli alti standard. Se questi non erano perseguiti, nessun altro sforzo o scopo raggiunto poteva essere ugualmente accettato: non basta il buon voto a scuola, serve prendere il massimo per essere considerato valido, per essere apprezzato. Non serve essere un discreto sportivo, si deve eccellere per essere riconosciuti. Crescendo con questo dogma, il Narcisista è alla continua ricerca di ammirazione da parte dell’altro: quando questa arriva, l’idealizzazione e la seduttività lo contraddistinguono, con la nascita di relazioni esclusive ed elitarie che lo appagano; ma se solo questa approvazione non si manifesta, se solo qualcuno non dimostra abbastanza interesse in lui, il Narcisista disprezza, critica, rifiuta a sua volta, esperendo sentimenti di rabbia e, talvolta, emozioni al limite del disgusto per gli altri. Si erge così sul piedistallo più alto, schiacciando l’altro e dominandolo nel Sistema di Rango; ma se quest’ultimo si ingaggia e proprio non ci sta, è il Narcisista a ritirarsi dallo scontro, a disimpegnarsi, oscillando tra stati di attivazione rabbiosa e vuoto devitalizzato. Volevamo inizialmente proporre una modulazione della rabbia, regolazione dell’aggressività e promozione dell’empatia? Ecco, per il Narcisista questo significherebbe la conferma di non avere valore, di doversi sottomettere all’altro che, inoltre, ha ben ragione a non apprezzarlo; anche in questo caso, nella migliore delle ipotesi il paziente droppa la terapia con un sonoro “Al diavolo!!!!”, ma nella peggiore delle casistiche rischia di entrare in uno stato di devitalizzazione e di fallimento, che può aprire le porte a sintomi depressivi molto severi.

Infine, si è citato il Sistema Esploratorio: tale Sistema viene spesso trascurato in clinica, nonostante stia proprio qui la vera svolta dell’approccio terapeutico con il Narcisista. Indagando le storie di vita dei pazienti con DP Narcisistico, si riscoprono spesso situazioni in cui il desiderio di esplorazione, la curiosità e la sperimentazione sono fortemente inibite da caregivers eccessivamente preoccupati (“Se decido di studiare all’estero mamma soffrirà e starà in pena per me”), oppure dediti alla trasmissione della spasmodica ricerca del successo (“Avere una ragazza porta via tempo allo studio, e come posso continuare a prendere il massimo dei voti se esco con gli amici?”). Il Narcisista non conosce la piacevolezza e non sa cosa significhi svolgere un’attività avendo come unico scopo il divertimento; si può iniziare proprio da qui: oltre che un continuo lavoro di osservazione e regolazione della Relazione Terapeutica, lo scopo delle prime fasi della terapia non dovrebbe essere quello di disinnescare la rabbia e l’aggressività, o di far entrare in contatto il paziente con la sua sofferenza, bensì concentrarsi su una discreta alleanza e promuovere lo sviluppo di alcune deficitarie competenze metacognitive, quali l’autoriflessività e la differenziazione; proporre compiti di monitoraggio e aiutare il paziente a conoscersi significa anche condividere passioni e interessi che, si vedrà, risultano scarsi e depurati da sentimenti di piacere e appagamento. Intervenire sul sistema esploratorio può essere utile per tenere il paziente in terapia, costruire con lui un buon rapporto terapeutico e, intanto, spingerlo a entrare in contatto con il mondo, con i suoi numerosi punti di vista e, infine, con le proprie emozioni (anche piacevoli!).
Ci insegna Dimaggio che, solo a questo punto, si inizieranno a notare cambiamenti anche nelle altre aree di problematicità: il paziente sarà forse un po’ meno rabbioso, e inizierà a conoscere modi nuovi di stare in relazione con l’altro; è giunto il momento di condividere con lui i suoi Schemi di funzionamento e di iniziare un processo di lenta e realistica promozione del cambiamento.

Terapia Metacognitiva Interpersonale: concettualizzare il funzionamento nei Disturbi di Personalità

Al di là del processo e nella tecnica, significativamente descritta in un manuale dedicato (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., 2013), colpisce come la concettualizzazione della problematica clinica in Terapia Metacognitiva Interpersonale per i Disturbi di Personalità attinga da correnti psicoterapeutiche diverse, tenendo insieme costrutti e obiettivi che provengono da scuole di pensiero che non comunicano tra loro con facilità.
Inevitabilmente, in questo impegnativo processo di integrazione, nasce un sistema, un linguaggio tipico del Modello: la rassegna è data da tutti quegli elementi che divengono markers di un terapeuta che parla la lingua TMI, volta a individuare gli aspetti di funzionamento del paziente con Disturbo di Personalità.

In prima battuta, lo “Schema Interpersonale”: Schema è ciò che, in forma implicita, ci guida e conferisce ordine al mondo permettendoci di fare previsioni, di rispondere repentinamente agli stimoli, conferisce una chiave di lettura intersoggettiva di ciò che ci accade, filtrando informazioni e interpretando la realtà.
La Schema Therapy (Young, J., Klosko, J.S., Weishaar, M.E., 2007) aveva proposto un costrutto vicino, il “mode”, attribuendogli un significato forse più rigido e con focus sul pezzo disfunzionale, che sviluppa e mantiene patologia.
Lo Schema in TMI è anche -ma non solo- questo; di per sé l’accezione non è connotata a priori, lo Schema è inteso come una modalità di risposta appresa (ça va sans dire!) che si automatizza nel tempo, e che può essere più o meno funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi interpersonali (gli Schemi non sono patogeni per definizione!).
Per essere tali, tuttavia, gli Schemi devono comporsi di alcuni elementi costitutivi.

Primo fra tutti è il “Wish”: il desiderio attivo, lo scopo, la spinta motivazionale. Il costrutto può trovare un riferimento nella Teoria dei Sistemi Motivazionali (Liotti, G., 2001; 2005), ma a differenza degli approcci attenti all’attaccamento come principale sistema compromesso nei pazienti, la TMI chiama in causa tutti i sistemi della psicologia evoluzionistica: attaccamento, accudimento, rango, appartenenza al gruppo/inclusione, gioco simbolico, sessualità, esplorazione. 
“Qual è il ‘Wish’, il desiderio espresso o frustrato nel paziente? E a quale sistema motivazionale afferisce?” diventano le domande che guidano la concettualizzazione TMI in colloquio.
Il clinico cerca dunque di rintracciare gli altri elementi tipici dello Schema: il ragionamento (o procedura) Se….Allora, la Risposta dell’Altro, la Risposta del Sé alla Risposta dell’Altro e l’Immagine di Sé sottostante.

La Procedura Se…Allora riguarda il ragionamento sul proprio comportamento (“Se dimostro il mio valore…”) e sulla conseguenza della risposta dell’Altro/Mondo sul Sè, conseguenza che può essere coerente con il raggiungimento dello scopo (“…verrò apprezzato”) o disfunzionale alla realizzazione del bisogno (“…verrò criticato”). Questa regola (warning: non è coping!) è totalmente implicita nel paziente, recuperarla e condividerla con lui è la parte più complessa della ricostruzione dello Schema.

La Risposta dell’Altro è più semplice da individuare: è la modalità con la quale leggiamo e interpretiamo le reazioni di chi è in interazione con noi; non comprende esclusivamente il comportamento agito, ma è come il paziente descrive l’Altro in un antecedente della dinamica interpersonale; la Risposta del Sé alla Risposta dell’Altro può essere indagata tramite una tecnica tipica dell’approccio cognitivo, l’ABC: si compone infatti dall’insieme di pensieri, emozioni, stati somatici e comportamenti del paziente in reazione alla risposta dell’Altro, un altro tassello del ciclo interpersonale che, nei Disturbi di Personalità, risulta problematico.

L’Immagine di Sé sottostante è l’insieme di attribuzioni, generalmente pessimistiche e negative, che il paziente fa su di sé; è l’elemento portante dello Schema, ideazione che lo sostiene. In TMI, tuttavia, lo sguardo clinico non è rivolto solo all’Immagine di Sé che si costruisce negativamente: il Modello è attento a rintracciare anche le Parti Sane riferite dal paziente, ovvero l’insieme di cognizioni di sé buone, funzionali, oppure in antitesi allo Schema disadattivo, in lotta contro di esso.

Ma quando uno Schema è tale? Quando si può procedere con una concettualizzazione condivisa e attendibile? Per rispondere a queste domande, il terapeuta TMI deve appellarsi al principio della non interpretazione: il modello prevede difatti la richiesta di esempi concreti, si deve poter ritrovare lo Schema Interpersonale nell’esperienza diretta del paziente indagando dati sensoriali, pensieri e, naturalmente, emozioni; è il recupero della memoria autobiografica a partire dalla vita-vissuta del paziente, mediata dai filtri dello Schema: eccolo lì, che si ripete, episodio dopo episodio, esempio dopo esempio. Solo quando si ottengono informazioni ridondanti e coerenti tra loro si può formulare lo Schema per poi restituirlo in maniera condivisa.

L’attivazione dello Schema si traduce anche nel corpo e a livello emotivo; si evidenzia un punto saldo del Modello, legato al processo di cura e cambiamento: perché questo avvenga in maniera determinante è bene che sia promosso un intervento bottom-up, che parta dall’esperienza sensoriale/pragmatica/emotiva e favorisca poi la ristrutturazione cognitiva. Tralasciando l’interessante querelle sul tema, questo principio è sostenuto da numerosi approcci, quali l’EMDR (Shapiro, F., 1989) la Sensory Motor (Fisher & Ogden, 2009; Ogden & Minton, 2000; Ogden, Minton & Pain, 2006), la Mindfulness (Kabat-Zinn J., Segal, Z.V., Williams, M., 2010).
C’è ben altro da dire: c’è la metacognizione e il concetto di “deficit” sostituito da quello di “malfunzionamento”, c’è l’esperienza in terapia con l’immaginazione guidata e il rescripting, c’è la grande attenzione alla relazione e all’alleanza terapeutica, fil rouge di numerosi modelli di intervento. Senza addentrarsi nella tecnica, è evidente come la TMI sia un punto di contatto tra la tradizione psicoterapeutica e le ondate più recenti, ponendosi con un atteggiamento di apertura e inclusione nei confronti delle più varie formazioni psicologiche, strutturando una concettualizzazione clinica motivata dalla ricerca della chiave di lettura del funzionamento interpersonale e metacognitivo del paziente.