Il cambiamento terapeutico come un processo che parte dal basso

Il cambiamento terapeutico come un processo che parte dal basso

 

Entro nella stanza e vedo, seduta davanti al suo tavolino dei giochi, una bambina che somiglia pericolosamente a mia figlia (…). Le chiedo ‘Come stai?’.. ‘Mi sento sola, vorrei qualcuno con cui giocare, tutto quello che chiedo è un fratellino.. Oppure un cucciolo, me ne occuperei io, non mi sembra di desiderare tanto, ma mamma e papà non mi ascoltano, loro non capiscono!’ (…)”.

D., occhi chiusi, immagina l’incontro tra la sua parte adulta (la donna in carriera, madre di due bellissime bambine e moglie premurosa) e la sua parte bambina, più introversa, emotiva, sofferente. Sofferente per il “semplice” fatto di essersi sentita parecchio sola quando era piccola, mamma e papà lavoravano senza sosta, a casa rientravano stanchi, non c’era tempo per giocare insieme, per accompagnarla dai compagni di classe nel weekend, per chiederle cosa aveva fatto di bello a scuola. Non era possibile occuparsi di un cucciolo, che D. tanto desiderava, né tantomeno avere un fratellino era cosa così semplice in quegli anni di difficoltà economiche!

D. è arrivata in terapia 8 mesi fa, in quanto stava vivendo un periodo di ansia e agitazione che le toglieva il sonno: rimuginio, arousal fisiologico, pensieri che non aiutavano. Piano piano ha notato come quell’ansia segnalasse il suo sentirsi senza controllo in alcune circostanze, delineate sempre meglio: sul lavoro è spesso questione di performance (“Ho troppo da fare, sento di fare tutto male, perderò la stima e la fiducia dei miei capi”), a casa i trigger riguardano il sentire tutte le responsabilità sulle proprie spalle (“Mio marito lavora fino a tardi, devo gestire le bambine, la casa, mi sento sola nel far fronte alla quotidianità”). L’ansia lascia progressivamente spazio alla rabbia, che ha già provato nel tempo: “Si ricorda una volta in cui l’Altro si è dimostrato assente, non disponibile, poco attento alle sue esigenze facendole pensare di doversi arrangiare.. E magari quando ha anche provato rabbia perché era ingiusto che lei venisse lasciata sola a occuparsi di tutto..?”.

“Sì, ricordo: avevo 5 anni, ero in casa e mi annoiavo, mamma faceva i mestieri, ma io avevo tanta voglia di giocare con qualcuno, di avere un po’ di compagnia.. Mamma era stanca e non poteva trascurare il resto, papà lavorava… Allora ho preso un libro di disegni in bianco e nero e mi sono impegnata a colorare dentro gli spazi.. Mi sono accorta che mi dava soddisfazione, mi gratificava. Era meglio trovarsi qualcosa da fare piuttosto che sentirsi soli e arrabbiati con i tuoi genitori perché non invitavano mai nessuno, né ti portavano a casa degli amici di scuola!”.

Si esplora un episodio specifico, compare la rabbia, poi arriva un profondo senso di tristezza e solitudine, che D. sopperiva (e sopperisce) concentrandosi su attività e compiti didattici (ha imparato a leggere a 4 anni!), un po’ per passare il tempo, un po’ per accaparrarsi uno sguardo interessato di mamma e papà.

D. inizia a mettere insieme gli eventi reali ed emotivi che hanno caratterizzato la sua vita, comprende e sa razionalmente che i suoi genitori le hanno voluto bene e che non potevano concederle quello che lei desiderava, perché non c’erano le risorse e, forse, perché non sempre lei chiedeva, e non era facile per loro capirla.

Nonostante questo, quelle emozioni spiacevoli, quel senso di solitudine non se ne vanno; nasce qui un quesito che ha animato dibattiti e confronti tra ricercatori e clinici, ovvero: il cambiamento è un processo efficace se la direzione è top-down (cioè a partire dalla ristrutturazione cognitiva, poi emotiva), o bottom-up (cioè prima sentendolo di pancia, poi ragionandoci su)? Alcuni terapeuti cognitivi (Wells, Mathews) ritengono che il cambiamento sia una questione di pensieri e nuove interpretazioni di alcuni eventi passati e presenti, aspetto che lascia spazio a vissuti emotivi meno spiacevoli e comportamenti più funzionali. Tutto è mediato dalla disputa, dalla messa in discussione o presa di distanza dalle credenze e dei bias cognitivi che le alimentano. Altri clinici (come gli autori del modello Sensomotorio o della Schema Therapy, per esempio) sono sostenitori dell’esatto contrario: seppur la parte cognitiva sia importante, il cambiamento viene promosso a partire dalla “correzione” dell’esperienza emotiva e dell’azione comportamentale, con modulazione e regolazione di comportamenti/emozioni, prima, e pensieri, poi. Ciò può avvenire tramite vere e proprie esposizioni a nuove abitudini e agiti, o anche tramite esercizi di immaginazione guidata, role-playing, rescripting.

Interessante è stato il dibattito, nell’estate 2017, tra autorevoli esponenti della teoria “top-down” (Sassaroli, Ruggiero e Caselli) e degni avversari sostenitori della teoria “bottom-up” (Dimaggio, G..): le varie dimostrazioni potevano sembrare convincenti in entrambi i casi, ma gli addetti ai lavori sanno che è necessario prendere una posizione in merito, perché questa querelle apparentemente banale indica il percorso e gli strumenti di lavoro che guidano ogni terapeuta con i suoi pazienti.

Senza voler essere categorici, è però utile ragionare su quello che succede nella stanza di terapia, osservando risposte e rimandi del paziente, allenato al monitoraggio; la terapia di D. è stata impostata secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., 2013): contratto terapeutico, individuazione e riformulazione condivisa di Schemi Interpersonali, incremento delle funzioni metacognitive, promozione del cambiamento… a partire dal basso!

Nel caso di D., lei di certo aveva capito in terapia – a livello cosciente e razionale – che mamma e papà non potevano fare diversamente da come hanno fatto; tuttavia, ha iniziato l’esercizio guidato con un peso al petto, immaginandosi la sua parte bambina sola e triste sul tavolino del soggiorno. Ha riportato sulla scena la sua parte adulta, che ha saputo dire a quella bambina che non poteva cambiare il passato, ma poteva prendersi di cura di lei adesso, validando la sua sofferenza, consolandola, legittimando le sue emozioni e abbracciandola forte. Dopo aver concluso l’esercizio, guidato dal terapeuta, ma spontaneo nel suo sviluppo, D. si asciuga le lacrime, apre gli occhi e dice “Quel nodo al petto adesso non c’è più”.



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