Un interessante articolo del Dott. G. Dimaggio in cui si riflette sui costi della cura e dell’assistenza. Soprattutto in quella fase della vita in cui l’attaccamento si inverte, i nostri genitori diventano anziani, bisognosi, e insorge un dilemma in molti di noi figli: sacrificare l’autonomia per accudirli, o tollerare e regolare la colpa per preservare i nostri scopi e desideri?
Il Corpo Malato e Disturbi di Personalità
IL CUORE MALATO: LA TMI IN CONTESTO CARDIOLOGICO RIABILITATIVO

La letteratura parla chiaro: le cardiopatie, nell’accezione ampia del termine, sono correlate a importante distress emotivo che si presenta principalmente come ansia, tristezza e sintomi post-traumatici; da queste reazioni emotive all’evento cardiaco possono derivare comportamenti disfunzionali per la salute generale, con implicazioni sullo stile e sulla qualità della vita. Il Protocollo Riabilitativo promosso dalla Regione Lombardia prevede, per le ragioni citate, la presenza di uno Psicologo Clinico all’interno dei reparti, ed è questo il motivo per cui esisto io, Chiara Polizzi, Psicoterapeuta di formazione TMI, all’interno dell’Unità Operativa di Cardiologia Riabilitativa dell’Ospedale San Giuseppe a Milano. Nel contesto ospedaliero il mio compito è principalmente quello di esplorare e regolare le risposte emotive post-evento. In un reparto ospedaliero il corpo è protagonista assoluto. E se si è ricoverati, il corpo si è ammalato. La condizione patologica non è semplice da accettare, a maggior ragione se riguarda il motore centrale della macchina; figuriamoci poi se il cuore malato batte nel petto di un uomo che soffre di un Disturbo di Personalità. Quando questo accade rischiano di essere seriamente compromessi gli obiettivi clinici e riabilitativi.
È a questo livello che intervengo io, ed è per queste ragioni che ho conosciuto Andrea.
Andrea ha 52 anni. Clinicamente la storia è drammatica: qualche mese prima era stato trattato con angioplastica a seguito di un infarto; ritenuto stabile e compensato era stato dimesso senza indicazione alla Riabilitazione Cardiologica. Un paio di settimane prima che lo conoscessi, mentre era a riposo in casa, il suo cuore si è fermato: arresto cardiocircolatorio dal quale si è salvato grazie all’intervento del vicino di casa che ha praticato un massaggio cardiaco fino all’arrivo dell’ambulanza. Impiantato in urgenza un defibrillatore, Andrea è stato stabilizzato e trasferito nel nostro reparto “quasi contro la sua volontà”, come avrà modo di dirmi durante il nostro primo incontro.
Capisco meglio cosa pensi e cosa si aspetti dal percorso riabilitativo appena lo incontro su segnalazione del cardiologo: è un uomo seducente, affabile, si rivolge agli Operatori Sanitari dando del “tu”, veste sportivo – la tuta è rigorosamente griffata – lasciando intendere che indossa l’abito di paziente per circostanza, non perché aderisca realmente al percorso di cure.
Accoglie chiunque entri in stanza come si trovasse nel salotto di casa sua, device elettronici sparsi qua e là (Apple è sovrana), musica di sottofondo che non spegne mai, neppure quando il medico lo guarda e gli fa notare che “l’ha rischiata grossa”. Affermazione alla quale peraltro Andrea replica con un sorriso di trionfo, come se fosse riuscito a fregare persino la morte. Certo, non proprio lui dato che, come ripete spesso, lui letteralmente non c’era, “Quindi come puoi essere spaventato da qualcosa che non hai vissuto, che non ricordi?”. Non fa una piega: Andrea era incosciente, dichiara dunque di non aver avuto percezione di niente, a eccezione del risveglio. Ne parla con un atteggiamento trionfante, come se attribuisse a se stesso (o a qualche qualità soggettiva) la sua sopravvivenza, trascurando il dettaglio che se non avesse ricevuto un massaggio cardiaco e non fossero intervenuti i soccorsi non sarebbe esattamente andata così…
Estratto da “Il Corpo malato e Disturbi di Personalità”.
Il Diavolo Prenda L’Ultimo – la fuga del narcisista
Si torna a parlare di Disturbo Narcisistico con Giancarlo Dimaggio.
Ma questa volta lo si fa usando un registro meno manualistico, ma narrativo, romanzesco. Una lettura a portata di tutti, non solo degli addetti ai lavori.
Allenare la Disciplina Interiore a partire dalla concettualizzazione TMI
Essere professionalmente giovane ha una caratteristica, cioè quella di potersi sentire naif, genuini e, talvolta, disarmati di fronte ad alcuni aspetti tipici del lavoro dello psicoterapeuta, tra cui tutto quell’insieme di comportamenti, agiti e rimandi del paziente che attivano i pezzi del clinico, risvegliano i suoi Schemi Interpersonali e costringendolo a un grande e impegnativo lavoro di Disciplina Interiore.
Non sarò sicuramente esperta di Disciplina Interiore, ma posso dire di aver accumulato una sufficiente esperienza di attivazione del Controtransfert disfunzionale per potermi sommariamente occupare dell’argomento. Avendo avuto (e avendo tuttora) i giusti Maestri, in ognuna di queste circostanze ho approfittato di loro per capirci qualcosa in più su questa “Disciplina Interiore”, o , per i meno metaforici, sulla regolazione emotiva del terapeuta in seduta.
La Disciplina Interiore è un assetto mentale del terapeuta, un insieme di strategie di gestione di vissuti emotivi scomodi che si attivano nel clinico in risposta a un’attitudine del paziente, partendo dalla consapevolezza che quell’attitudine ha toccato una corda sensibile del professionista, e che quindi va regolata, pena l’attivazione di processi interpersonali non utili alla seduta (Safran & Segal,1990).
Il paziente fa ritardo senza avvisare; il paziente porta un piccolo regalo; il paziente fa un commento sull’età del terapeuta. Le emozioni primarie, la prima volta: ansia – imbarazzo – rabbia.
Ansia: “Sono passati 5 minuti, di solito è puntuale…”, “Strano che non avvisi se ritarda, sarà successo qualcosa”… “O più semplicemente ha capito che venire qui non gli serve a niente perché non stiamo lavorando nel modo giusto”….
IN SOTTOFONDO: “Sono una terapeuta incapace!”
Imbarazzo: “Ma che vergogna, sarò diventata paonazza!!”… “Speriamo non pensi che accettare un piccolo regalo significhi che non ci sono confini!”… “Ma che, ci prova?!?!?!”..
IN SOTTOFONDO: “Ho sbagliato ad accettare, sono una terapeuta inadeguata!”
Rabbia: “Ancora con questi commenti sull’età, sembro giovane e sono giovane, punto e basta”… “Se proprio ti pare bizzarro che sia così giovane cercati pure un altro terapeuta!” …. “Che poi, giovane significa sempre e solo inesperto?!”… “Forse però è così, come posso comprendere e aiutare chi ha molta più esperienza vissuta della mia?”
IN SOTTOFONDO: “Sono una terapeuta inadatta!”.
Quel sottofondo, non così chiaro nel momento contingente, è stata la chiave per poter aprire il capitolo “autodisciplina”; tramite un buon lavoro personale e di supervisione, riparlare delle emozioni che si sono scatenate in questi episodi è stato essenziale per osservare una particolarità, adesso più lampante, ma che allora non era semplice da notare; e cioè che sotto quelle emozioni – ansia, imbarazzo e rabbia – c’era un vissuto secondario imponente, forte, emotivamente pericoloso: il pensiero di non essere un terapeuta capace, associato a delusione e tristezza da cui ci si tiene lontano come si può…. Ad esempio, agendo coping poco utili all’alleanza e al lavoro terapeutico, coping che tengono apparentemente sotto controllo tutto ciò che non ci piace del rango, della seduttività, della dipendenza dei pazienti, o ancora della loro invadenza, dell’iperaccudimento che talvolta chiedono, dell’evitamento che hanno anche verso di noi terapeuti.
Secondo la concettualizzazione in Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R. & Salvatore, G., 2013) le Risposte dell’Altro (in questo caso il paziente) provocano Risposte del Sé (in questo caso il terapeuta) alla Risposta dell’Altro, cioè un insieme di pensieri, emozioni, coping che, se disfunzionali, non aiutano a regolare e promuovere emozioni ed azioni utili. Il terapeuta non è indenne a Schemi Interpersonali disadattivi (ad esempio di Inadeguatezza e Indegnità), pertanto diventa essenziale saper riconoscere cosa sta accadendo nella mente del clinico.
In caso contrario, il rischio è che il paziente che tarda ci riporti a una scena in cui qualcuno si allontanava da noi in maniera improvvisa e inaspettata, il paziente che ci fa un regalo diventa qualcuno che poi ci ha fatto sentire invasi, e il paziente che commenta la nostra età si tramuta in qualcun altro che non ci crede degni di fiducia. E tutte queste scene hanno un unico filo conduttore, quello che porta a credere che quello che l’Altro pensa di noi e il modo in cui ci fa sentire sia vero. Non c’è differenziazione, solo una voce che, quasi impercettibile, dice “Così non vai bene”. Lo Schema Interpersonale disfunzionale.
Comprendere questo e associarlo alla propria esperienza, lavorandoci su, è il primo passo per poter regolare e gestire questa mole emotiva nell’hic et nunc della seduta.
In alcune situazioni sarà più facile, in altre meno, ma non si può prescindere da due abilità metacognitive essenziali per poterlo fare, l’Automonitoraggio e la Differenziazione: “Mi sto accorgendo di provare un’emozione, il corpo che si attiva e mi dà delle sensazioni….” … “Che cosa mi sto dicendo proprio adesso, quale pensiero e quale immagine negativa di me stanno prendendo spazio nella mente?” … “Adesso che so di cosa si tratta, posso dirmi che quel pensiero è solo un’ipotesi, un’alternativa, ma non è per forza la realtà”. E insieme a questo, nuove strategie e modelli di regolazione si attivano, permettendo al terapeuta di preservare la relazione e l’alleanza di lavoro.
Le volte successive, le emozioni primarie restano pressoché le stesse: ansia – imbarazzo – rabbia. Quello che si modifica è l’intensità con cui si provano e, di conseguenza, il comportamento agito, in TMI la Risposta del Sé alla Risposta dell’Altro.
Ansia: “Solitamente è puntuale, come mai non arriva?” … “Speriamo non abbia deciso di non venire più perché pensa che non serva a niente”…. “Ma forse ha solo avuto un contrattempo, aspettiamo ancora qualche minuto”.
IN SOTTOFONDO: “Se anche il paziente deciderà di non proseguire, questo non significa che abbia per forza lavorato male!”
COMPORTAMENTO: “Non la vedevo arrivare e mi sono preoccupata, spero non sia capitato niente di grave!”
Imbarazzo: “Sarò sicuramente arrossita!” …. “Speriamo non pensi che non so tenere i confini!” … “Ma forse vedermi grata e sorpresa mi ha reso semplicemente umana ai suoi occhi!”
IN SOTTOFONDO: “Mi ha fatto piacere ricevere un regalo, forse adesso è utile svelare le mie emozioni”.
COMPORTAMENTO: “Avrà notato che mi sono emozionata, è stato molto gentile. Posso chiederle quale bisogno o desiderio l’ha spinta a portarmi un regalo?”
Rabbia: “Non mi piace quando si fanno riferimenti alla mia età, mi fa sentire inadatta”… “Però magari non è sfidante, forse il paziente è solo curioso”… “Se anche fosse diffidente, penso di avere gli strumenti per poter lavorare insieme a lui”.
IN SOTTOFONDO: “Giovane non è sempre solo sinonimo di inesperto!”.
COMPORTAMENTO: “Comprendo che vedermi così giovane crei un po’ di diffidenza. Quello che le chiedo non è di cambiare opinione, ma proviamo a darci una chance per fare un buon lavoro, lei che ne pensa?”.
In sintesi, praticare Disciplina Interiore è possibile ad alcune condizioni: un costante lavoro di Monitoraggio su come il terapeuta sta, pensa e si sente in seduta con il paziente, senza temere reazioni espulsive o spiacevoli, bensì notandole e approfittando di contesti utili (terapia, supervisione, intervisione…) per rifletterci su. In chiave TMI, questo passaggio potrebbe portare all’individuazione degli Schemi disfunzionali del clinico e delle memorie che si associano a essi, permettendo di agire quell’abilità metacognitiva che è l’anticamera del cambiamento: la Differenziazione.
Occuparsi della sofferenza (organica ed emotiva) del cuore
Data l’esperienza maturata nell’Unità Operativa di Cardiologia Riabilitativa, si offre un percorso di sostegno e supporto in caso di diagnosi di patologia cardiaca e, ove necessario, intervento e riabilitazione.
Avere consapevolezza del fatto che il nostro cuore soffre di qualche forma di insufficienza è destabilizzante: spaventa, crea talvolta un punto di rottura nella continuità della nostra esperienza di vita; ne derivano spesso comportamenti prudenziali e di evitamento, accompagnati da ansia somatica associata all’intervento cardiaco e a iper-monitoraggio corporeo, con conseguente confusione tra ciò che è il sintomo cardiaco e l’arousal emotivo.
Una completa Riabilitazione Cardiologica non prevede esclusivamente monitoraggio medico e fisioterapia, ma anche un sostegno psicologico che abbia come obiettivo quello di regolare le emozioni disfunzionali, effettuare interventi educazionali sui fattori di rischio cardiovascolari e sulla promozione del cambiamento, e talvolta affrontare alcuni aspetti traumatici mediante tecniche protocollate (ad esempio l’EMDR).
Esigenti o indulgenti con noi stessi? Questo è il dilemma!
Intervista del Corriere Della Sera a Giancarlo Dimaggio, Psichiatra e Psicoterapeuta, fondatore del modello TMI – Terapia Metacognitiva Interpersonale.
Perché essere indulgenti con noi stessi ci aiuta anche a raggiungere i nostri obiettivi… con un occhio benevolo.
Click sull’immagine e… buona lettura!
Il cambiamento terapeutico come un processo che parte dal basso
“Entro nella stanza e vedo, seduta davanti al suo tavolino dei giochi, una bambina che somiglia pericolosamente a mia figlia (…). Le chiedo ‘Come stai?’.. ‘Mi sento sola, vorrei qualcuno con cui giocare, tutto quello che chiedo è un fratellino.. Oppure un cucciolo, me ne occuperei io, non mi sembra di desiderare tanto, ma mamma e papà non mi ascoltano, loro non capiscono!’ (…)”.
D., occhi chiusi, immagina l’incontro tra la sua parte adulta (la donna in carriera, madre di due bellissime bambine e moglie premurosa) e la sua parte bambina, più introversa, emotiva, sofferente. Sofferente per il “semplice” fatto di essersi sentita parecchio sola quando era piccola, mamma e papà lavoravano senza sosta, a casa rientravano stanchi, non c’era tempo per giocare insieme, per accompagnarla dai compagni di classe nel weekend, per chiederle cosa aveva fatto di bello a scuola. Non era possibile occuparsi di un cucciolo, che D. tanto desiderava, né tantomeno avere un fratellino era cosa così semplice in quegli anni di difficoltà economiche!
D. è arrivata in terapia 8 mesi fa, in quanto stava vivendo un periodo di ansia e agitazione che le toglieva il sonno: rimuginio, arousal fisiologico, pensieri che non aiutavano. Piano piano ha notato come quell’ansia segnalasse il suo sentirsi senza controllo in alcune circostanze, delineate sempre meglio: sul lavoro è spesso questione di performance (“Ho troppo da fare, sento di fare tutto male, perderò la stima e la fiducia dei miei capi”), a casa i trigger riguardano il sentire tutte le responsabilità sulle proprie spalle (“Mio marito lavora fino a tardi, devo gestire le bambine, la casa, mi sento sola nel far fronte alla quotidianità”). L’ansia lascia progressivamente spazio alla rabbia, che ha già provato nel tempo: “Si ricorda una volta in cui l’Altro si è dimostrato assente, non disponibile, poco attento alle sue esigenze facendole pensare di doversi arrangiare.. E magari quando ha anche provato rabbia perché era ingiusto che lei venisse lasciata sola a occuparsi di tutto..?”.
“Sì, ricordo: avevo 5 anni, ero in casa e mi annoiavo, mamma faceva i mestieri, ma io avevo tanta voglia di giocare con qualcuno, di avere un po’ di compagnia.. Mamma era stanca e non poteva trascurare il resto, papà lavorava… Allora ho preso un libro di disegni in bianco e nero e mi sono impegnata a colorare dentro gli spazi.. Mi sono accorta che mi dava soddisfazione, mi gratificava. Era meglio trovarsi qualcosa da fare piuttosto che sentirsi soli e arrabbiati con i tuoi genitori perché non invitavano mai nessuno, né ti portavano a casa degli amici di scuola!”.
Si esplora un episodio specifico, compare la rabbia, poi arriva un profondo senso di tristezza e solitudine, che D. sopperiva (e sopperisce) concentrandosi su attività e compiti didattici (ha imparato a leggere a 4 anni!), un po’ per passare il tempo, un po’ per accaparrarsi uno sguardo interessato di mamma e papà.
D. inizia a mettere insieme gli eventi reali ed emotivi che hanno caratterizzato la sua vita, comprende e sa razionalmente che i suoi genitori le hanno voluto bene e che non potevano concederle quello che lei desiderava, perché non c’erano le risorse e, forse, perché non sempre lei chiedeva, e non era facile per loro capirla.
Nonostante questo, quelle emozioni spiacevoli, quel senso di solitudine non se ne vanno; nasce qui un quesito che ha animato dibattiti e confronti tra ricercatori e clinici, ovvero: il cambiamento è un processo efficace se la direzione è top-down (cioè a partire dalla ristrutturazione cognitiva, poi emotiva), o bottom-up (cioè prima sentendolo di pancia, poi ragionandoci su)? Alcuni terapeuti cognitivi (Wells, Mathews) ritengono che il cambiamento sia una questione di pensieri e nuove interpretazioni di alcuni eventi passati e presenti, aspetto che lascia spazio a vissuti emotivi meno spiacevoli e comportamenti più funzionali. Tutto è mediato dalla disputa, dalla messa in discussione o presa di distanza dalle credenze e dei bias cognitivi che le alimentano. Altri clinici (come gli autori del modello Sensomotorio o della Schema Therapy, per esempio) sono sostenitori dell’esatto contrario: seppur la parte cognitiva sia importante, il cambiamento viene promosso a partire dalla “correzione” dell’esperienza emotiva e dell’azione comportamentale, con modulazione e regolazione di comportamenti/emozioni, prima, e pensieri, poi. Ciò può avvenire tramite vere e proprie esposizioni a nuove abitudini e agiti, o anche tramite esercizi di immaginazione guidata, role-playing, rescripting.
Interessante è stato il dibattito, nell’estate 2017, tra autorevoli esponenti della teoria “top-down” (Sassaroli, Ruggiero e Caselli) e degni avversari sostenitori della teoria “bottom-up” (Dimaggio, G..): le varie dimostrazioni potevano sembrare convincenti in entrambi i casi, ma gli addetti ai lavori sanno che è necessario prendere una posizione in merito, perché questa querelle apparentemente banale indica il percorso e gli strumenti di lavoro che guidano ogni terapeuta con i suoi pazienti.
Senza voler essere categorici, è però utile ragionare su quello che succede nella stanza di terapia, osservando risposte e rimandi del paziente, allenato al monitoraggio; la terapia di D. è stata impostata secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., 2013): contratto terapeutico, individuazione e riformulazione condivisa di Schemi Interpersonali, incremento delle funzioni metacognitive, promozione del cambiamento… a partire dal basso!
Nel caso di D., lei di certo aveva capito in terapia – a livello cosciente e razionale – che mamma e papà non potevano fare diversamente da come hanno fatto; tuttavia, ha iniziato l’esercizio guidato con un peso al petto, immaginandosi la sua parte bambina sola e triste sul tavolino del soggiorno. Ha riportato sulla scena la sua parte adulta, che ha saputo dire a quella bambina che non poteva cambiare il passato, ma poteva prendersi di cura di lei adesso, validando la sua sofferenza, consolandola, legittimando le sue emozioni e abbracciandola forte. Dopo aver concluso l’esercizio, guidato dal terapeuta, ma spontaneo nel suo sviluppo, D. si asciuga le lacrime, apre gli occhi e dice “Quel nodo al petto adesso non c’è più”.
Il Disturbo Dissociativo di Identità in letteratura e sul grande schermo
Una Stanza Piena di Gente (2009) è l’emblematico titolo del libro scritto nel 1981 dall’autore americano Daniel Keyes, il quale ripercorre la biografia di William Stanley Milligan (meglio conosciuto come Billy Milligan), un ragazzo di soli 26 anni condannato a pena carceraria dopo esser stato arrestato per rapimento, stupro e rapina di tre studentesse universitarie nel 1977.
Ciò che intriga della vicenda non riguarda tanto il fatto di cronaca di per sé, quando la scoperta, fatta proprio durante l’incarcerazione, della coesistenza nell’imputato di ben 24 personalità differenti, parti emotive del soggetto così dissociate dal suo Io Dominante (altrimenti detto ANP, Apparently Normal Person), strutturate e scisse tra loro.
Settembre 1977. Columbus, Ohio. Billy Milligan, interrogato dopo l’arresto, non nega le accuse che gli vengono mosse, semplicemente afferma di non ricordare e si dimostra sinceramente confuso a riguardo. Tramite numerose perizie psichiatriche, verrà appurato che il giovane Milligan è affetto da un disturbo relativamente misconosciuto nel panorama scientifico del tempo, ma che dal 1980 era stato introdotto con riserve anche all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM III) con l’etichetta di Disturbo della Personalità Multipla (attualmente, DID – Disturbo Dissociativo dell’Identità, dalla IV edizione del DSM – 1994).
Biografie analoghe non sono nuove nella letteratura internazionale: uno dei primi scritti riguardanti questo disturbo è difatti Sybil (Schreiber, 1973), storia romanzata della vita di Shirley Ardell Mason (alias, Sybil), giovane donna tra le prime a vedersi riconosciuta la diagnosi di DDI. Sybil convive con 16 differenti personalità, le quali hanno caratteristiche, connotati e specificità tanto uniche da non poter essere spiegate come tratti di un’unica persona.
Perdite di tempo, splitting, e fusione divengono dunque termini ricorrenti per descrivere questo controverso disturbo che, come ormai sembra assodato, si struttura su una base traumatica molto severa, legata a esperienze infantili precoci e alla relazione con caregivers abusanti, maltrattanti e gravemente negligenti.
Il Disturbo Dissociativo dell’Identità diviene quindi il risultato delle forme più estreme di violenza cronica e perpetrata che il soggetto può subire a partire dalla primissima infanzia, al punto che tale evidenza viene oggi inclusa nella nosografia del disturbo stesso da Manuale Diagnostico.
Diverse sono le tendenze che tentano di spiegare questa disintegrazione del Sé: per alcuni, la dissociazione non è che un meccanismo di difesa, dedito a proteggere l’Io da esperienze estremamente dolorose e fortemente destabilizzanti, accompagnate da un senso di insottraibilità alle stesse esperito dal soggetto (Bordi, 1999); per altri, unitamente a questo, sembra intervenire un complesso processo che parte dalla disregolazione degli stati emozionali e di arousal, innescando meccanismi prettamente biologici (evoluzione della teoria polivagale di Porges) e “spegnendo” il soggetto, che giunge alla scissione nei casi più gravi – in queste circostanze si parla di un particolare tipo di dissociazione che viene detta terziaria – (Tagliavini, 2011).
Naturalmente, il Disturbo Dissociativo dell’identità è decisamente più articolato: ancora oggi la letteratura non ne parla in modo approfondito, in parte a causa della rarità del fenomeno, in parte probabilmente proprio per la sua complessità.
Anche solo immaginare un paziente che presenti le caratteristiche sopra descritte pare quasi fantascientifico, pertanto non ci stupisce la reazione scettica di medici e psichiatri che, anni fa, hanno avuto a che fare con personaggi controversi quali Sybil e William Milligan.
Per aiutarci nella rappresentazione di questo gravissimo disturbo, rendendoci consapevoli delle difficoltà, conseguenze e stigma che comporta, possiamo tuttavia ammirare la convincente performance dell’attrice americana Toni Collette in United States of Tara, serie TV del 2009 (prodotta da Steven Spielberg) che narra della vita di una donna affetta da DDI.
Le vicende rappresentate concernono la vita quotidiana della protagonista e della sua famiglia, la quale si trova a convivere e dover gestire gli splitting tra una personalità e un’altra, con una figura che in un momento è madre, in un altro è figlia, in un momento è donna e in un altro è uomo.
Il viaggio che Spielberg permette di compiere è di vera e propria scoperta del disturbo e delle sue sfaccettature, aiutando l’osservatore ad averne anche meno paura (il mood della serie televisiva è difatti scherzoso e ironico, aspetto che alleggerisce molto i contenuti decisamente controversi). Ma non solo: la scoperta è anche quella di Tara, della sua infanzia, delle sue personalità, dei suoi scheletri; e stando a quanto noto in letteratura circa le origini della patologia … cosa potrà mai venire alla luce rispetto al passato della protagonista?
Sindrome del sopravvissuto: la trappola della (non) responsabilità
“Ha avuto la sensazione del sopravvissuto, il senso di colpa di chi resta?”
“Senso di colpa no, ma la sensazione molto comune di stare vivendo dei sentimenti e delle emozioni mai provati prima. E di sentirti impotente”.
Sono queste le parole che l’attore John Turturro usa per rispondere a un giornalista de “L’Espresso”, interessato allo stato d’animo, nonché psicologico, dell’attore dopo l’11 Settembre 2001. Turturro ha perso in quell’occasione quattro amici, è intervenuto in prima persona per prestare soccorso e, presumibilmente, ha manifestato una commistione di sintomi che potrebbero essere classificati come “da stress post-traumatico”, primo fra tutti il senso di impotenza menzionato dall’attore stesso durante l’intervista.
Ma la domanda del giornalista si riferisce a ben altro, e viene fatta con cognizione di causa: “Ha avuto la sensazione del sopravvissuto?”.
Eventi di tale tragicità – ci insegna la storia – tendono difatti ad accompagnarsi alla nascita di una particolare tipologia di senso di colpa, definita appunto “del sopravvissuto”: esempio eclatante e noto a chiunque è quello dello scrittore ebreo Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, ma morto suicida perché vittima di un intollerabile (e apparentemente ingiustificato) senso di colpa nei confronti di chi non è mai tornato a casa.
Il senso di colpa può essere descritto come “il dispiacere provato per aver compromesso il perseguimento di uno scopo a un soggetto X, per essere stati causa di un suo disagio o malessere” (Castelfranchi, D’Amico, Poggi, 1994). Ciò che caratterizza questa emozione, è il fatto che il soggetto si riconosce colpevole per il danno, ingiusto, causato all’altro; ma non solo: è sufficiente che il soggetto si ritenga colpevole di aver avuto l’intenzione o il desiderio di causare danno, portando il tutto a un piano ancor più astratto e scorporato dalla realtà (Mancini, 1997).
Nello specifico, la “colpa del sopravvissuto” risulta per il soggetto paralizzante per due motivi:
- Per il fatto di vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri che appaiono maggiormente danneggiati(Kubany e Manke, 1995);
- Per le azioni o in-azioni che hanno aumentato il senso di minaccia alla propria sopravvivenza, ossia la percezione di non aver fatto abbastanza per prevenire la catastrofe e le sue conseguenze(Parson, 1986).
Dunque, che cosa genera questo forte senso di responsabilità? Perché un sopravvissuto all’olocausto, all’attacco alle Torri Gemelle, a un incidente o a un episodio drammatico che ha causato la morte di altre persone, può sviluppare un senso di colpa così forte da portare addirittura al suicidio?
“L’operazione cognitiva necessaria per provare senso di colpa del sopravvissuto è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare senso di colpa, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è senso di colpa” (Poggi, 1994). Insomma, quello che viene fortemente minacciato nel caso del senso di colpa del sopravvissuto è il senso di equità e di uguaglianza che si presume debba vigere tra gli esseri umani, e che impedisce di dare risposta alla domanda “Perché lui sì, e io no?”.
Nel caso specifico del senso di colpa legato a un evento traumatico, quale può essere, appunto, il caso della “colpa del sopravvissuto”, la terapia cognitiva comportamentale si rivela efficace, in quanto la colpa è originata essenzialmente dal modo in cui una persona valuta ed interpreta gli eventi.
La terapia cognitivo comportamentale per la colpa legata a un trauma comprende: (a) l’assessment; (b) esercizi di esposizione immaginativa; (c) correzione degli errori di ragionamento che conducono a conclusioni erronee associate alla colpa (rivalutazione della percezione di giustificazione, responsabilità e azioni commesse).
Riducendo la colpa, quindi, si può anche lavorare con il paziente con l’obiettivo di favorire un incremento della self-compassion e dell’accettazione (Gilbert e Procter 2006). La self-compassion consiste in un’attitudine emotivamente positiva e funzionale che dovrebbe proteggere l’individuo dalle conseguenze negative del giudizio verso se stessi, dall’isolamento e dalla ruminazione. Il paziente può imparare ad essere, pertanto, più compassionevole e non giudicante nei confronti di se stesso, a percepire la propria esperienza come parte dell’esperienza umana più ampia, piuttosto che percepirsi come isolato e separato dal resto, e, infine, a sviluppare un atteggiamento mindful, ovvero una maggiore abilità nel controllare i propri pensieri e sentimenti, piuttosto che identificarsi eccessivamente con essi.
La Relazione Terapeutica con pazienti difficili: il contributo della TMI
Dato di fatto: la costruzione di un’adeguata Relazione Terapeutica non si impara sui libri; la regolazione e, ancora di più, la riparazione della Relazione Terapeutica non si leggono sui manuali.
Eppure, se non si compiono alcune (più o meno semplici) operazioni, che hanno come oggetto la modalità di stare in relazione tra paziente e clinico, la terapia stessa potrebbe venirne compromessa o, almeno, risultare meno efficace.
Ogni modello di trattamento si interroga sulla Relazione Terapeutica e, in quanto tale, anche la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., 2013) ha dedicato attenzione a questo argomento: i pazienti con Disturbo di Personalità ingaggiano il clinico in dinamiche di interazione complesse, che hanno tutto a che fare con le loro vulnerabilità, con il disfunzionale metodo che usano per misurare se stessi, gli altri e il mondo.
Ciò che accade nella stanza di terapia è spesso una rappresentazione di quanto succede fuori, ovvero si ripropongono gli stessi meccanismi e le stesse modalità che il paziente abitualmente utilizza nella sua quotidianità, nelle sue relazioni. Il paziente, certo, ma anche il clinico: nella stanza non si è mai da soli, al comportamento di uno corrisponde una reazione dell’altro, in un vero scambio tra due esseri umani in interazione.
È il ciclo interpersonale (Dimaggio, G., Semerari, A., 2003 ) un processo relazionale tramite il quale lo Schema degli interlocutori guida le aspettative e i comportamenti dell’interazione tra Sé e l’Altro; ma cosa accade se i cicli interpersonali in questione sono disfunzionali? Se gli Schemi sottostanti sono patogeni? Solitamente, succede che nella relazione tra clinico e paziente qualcosa inizia a funzionare male, rendendo il clima di terapia sfidante, diffidente, svalutante, oppure idealizzato, intimo, dai confini labili; insomma, accade qualcosa che non aiuta il processo terapeutico e che si discosta dall’obiettivo di cooperazione che dovrebbe invece contraddistinguere il setting.
“Com’è giovane Dott.ssa, posso darle del ‘tu’?!”; “Mi sa dire in quanto tempo starò meglio, non posso certo pensare di venire in terapia per anni!!”; oppure: “Ma cosa ne vuole sapere lei di come mi sento?!”; ancora: ritardi ingiustificati, pagamenti a singhiozzo. L’alleanza in terapia non è sempre semplice da costruire e, soprattutto, da mantenere. Ci sono numerosi segnali verbali e non verbali di frattura della relazione tra clinico e paziente che, per procedere con il lavoro terapeutico, devono essere accuratamente decodificati, indagati e “risolti”.
“Risolvere” è un verbo che ha il suo significato in questo contesto: il mestiere del terapeuta prevede anche il saper riconoscere e lavorare sui propri pezzi personali che, in un ciclo interpersonale con il paziente, vengono spesso elicitati risvegliando emozioni intense, che contribuiscono al mantenimento dell’interazione disfunzionale; una giovane terapeuta sensibile al tema dell’inesperienza, può provare forte irritazione nei riguardi di un paziente che usa il “tu” e che esplicita commenti sulla sua età (succede!!). Potrebbe sentirsi minacciata nel suo ruolo, potrebbe vivere con ansia il test del paziente, o ancora potrebbe rispondere aggressivamente a un’esplicita richiesta di abbandonare il più formale (e congruo!!) “lei”. Tutte queste eventualità riguardano però il suo modo di reagire a un vissuto doloroso, strategia messa in atto per prendere le distanze dal senso di inadeguatezza e di indegnità che le si risveglia più profondamente, insieme a emozioni di tristezza e impotenza. Agire quella voglia di rimettere l’altro “al posto suo” e di ripristinare i ruoli potrebbe essere deleterio, e portare addirittura al drop-out del paziente.
Come fare allora di fronte a qualsivoglia indicatore di relazione terapeutica malsana? Innanzitutto, è utile conoscere i propri temi dolorosi, i vissuti emotivi e gli spazi mentali nei quali non vorremmo stare mai (scontato dire che anche il clinico necessita di un buon lavoro di terapia personale e di supervisione professionale). Una volta acquisita la conoscenza e avviato il monitoraggio di tali aspetti, step successivo dovrebbe essere quello di prenderne distanza critica, differenziando e riconoscendo che questi vissuti non sono la realtà oggettiva e indiscutibile, ma una nostra rigida rappresentazione di essa, che può essere regolata e modificata: “Non sono inconfutabilmente inadeguato, ma ho uno Schema di inadeguatezza”, è ben diverso. “Risolvere” dunque è l’estrema sintesi del processo di monitoraggio, riconoscimento e regolazione di questi aspetti di vulnerabilità.
Tutto questo processo dovrebbe tuttavia avvenire nei pochi secondi entro i quali ci si accorge di essere stati punti, toccati nel vivo dal paziente; sembra impossibile? In realtà, ciò che viene richiesto al clinico è di esercitare un’adeguata Disciplina Interiore che gli permetta di modulare l’emozione sgradevole vissuta in terapia -nella dinamica interpersonale- e non agire impulsivamente in risposta al paziente.
La Disciplina Interiore (Safran & Segal, 1992) è un’operazione privata di regolazione dello stato mentale doloroso, che il terapeuta compie per evitare una reazione emotiva disregolata. La pratica è lo strumento più utile che si possiede per ricordarsi che non c’è niente di personale nel ciclo paziente-terapeuta, permettendo di ritrovare sintonia e ripristinare la cooperazione. Insomma, in TMI si tratta di riconoscere l’attivazione dei propri Schemi, e metterli da parte, disimpegnandosi.
Dato di fatto: la costruzione di un’adeguata Relazione Terapeutica non si impara sui libri: è attraverso la terapia personale e la disponibilità a chiedere supervisione ai colleghi che si può imparare a lavorare sui cicli interpersonali, metacomunicando sulla dinamica relazionale e impostando un lavoro terapeutico che va oltre i protocolli, avviando un processo di cura che passa per l’esserci, insieme, con uno spirito cooperativo verso il cambiamento.